Fisica ...tra Scienza e Mistero (Universo,Energia,Mente e Materia)
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 La festa sta per finire per tutti ...ricchi e poveri

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Fausto
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MessaggioTitolo: La festa sta per finire per tutti ...ricchi e poveri   La festa sta per finire per tutti ...ricchi e poveri Icon_minitimeDom Mag 11, 2008 9:37 pm

Fonte: http://www.quinterna.org/rivista/05/conferme_crisimondiale.htm
Conferme dalla crisi mondiale
Secondo le previsioni dell'OCSE, entro dicembre diminuirà il PIL in 11 dei venti paesi più industrializzati; in 18 crollerà la produzione industriale. La Federal Reserve americana ha tagliato i tassi per la settima volta dall'inizio dell'anno, segno che l'economia non reagisce. Il mitico Greenspan, padre del miracolo economico delle new economy, non è più tanto mitico. In caduta sono già Messico, Giappone, Singapore, Taiwan, Argentina, Turchia e molti altri paesi dell'Asia e dell'America Latina. Si ipotizza la caduta del PIL mondiale al di sotto dello zero nell'inverno: sarebbe la prima volta dal 1980. Ma già nell'autunno vi sarà probabilmente un calo del PIL americano, il cui peso specifico ha conseguenze su tutto il mondo.
Siccome l'andamento dell'indice del valore industriale rispecchia quello del saggio di profitto, il calo della produzione e il mancato recupero di valore negli altri settori indicano un blocco nel meccanismo di produzione di plusvalore. In pratica producono sempre meno effetti le "controtendenze" alla caduta del saggio di profitto, come il ricorso ad una più bassa composizione organica del capitale (meno macchine, più operai sottopagati), al taglio dei salari, all'aumento delle ore di lavoro, all'investimento estero, alla maggiore finanziarizzazione. Questa perdita di energia del sistema si vede già nello schema di accumulazione allargata di Marx: se il sistema potesse crescere all'infinito, la retroazione positiva dovuta al reinvestimento del profitto potrebbe continuare per sempre. Ma così non è perché il nostro pianeta è un modello a dimensioni finite, non è espandibile a piacere.
La caduta del saggio di profitto fa soffrire il singolo capitalista che, per ovviarvi, cerca di accontentarsi di una massa maggiore (meglio intascare il 2% su 1.000 dollari che il 10% su 100), quindi allarga la scala della sua produzione ricorrendo alle fusioni, diventa più monopolista, più finanziere, più centralista. In tal modo fa aumentare il suo profitto, ma lo fa espropriando i suoi simili a suon di scalate ostili in borsa. Fiat-Montedison, Pirelli-Telecom, Hewelett Packard-Compaq, tanto per citare gli ultimi casi, non aumentano il potenziale capitalistico, non accrescono il numero di fabbriche, di capitalisti e di operai, lo diminuiscono. Il capitalista singolo se la cava, diventa più potente e più ricco, ma il profitto complessivo, dato dalla somma dei profitti parziali diminuiti di numero, ne risente. Nel frattempo la produttività aumenta, il ciclo di accumulazione si abbrevia, in ciascuno di essi si affaccia lo spettro della diminuzione anche della massa del plusvalore e ogni capitalista non può fare altro che aumentare i cicli nell'anno, che è l'unità di tempo non secondo la legge del valore ma secondo i criteri di bilancio del suo commercialista.
Quando il capitalista non ce la fa più con la produzione e il commercio, ricorre all'investimento diretto all'estero, nel tentativo disperato di far giungere alla metropoli plusvalore prodotto altrove, dove il lavoro "costa meno"; ma dove trova altri come lui, in una concorrenza sfrenata e una produttività locale più bassa, che vuol dire una minore quantità di plusvalore prodotto per ogni operaio. Su tutto vede incombere un capitale spersonalizzato, globalizzato, così immensamente grande e mobile che lo schiaccia e lo fa muovere ai suoi ordini.
Con gli Stati Uniti in declino, la Germania e il Giappone stagnanti, l'Asia e l'America Latina in recessione, l'Africa allo sfascio, la Russia in coma, il nostro capitalista ha ben motivo di allarmarsi per la sorte dei suoi capitali. Nelle crisi passate aveva almeno la possibilità di muoverli dalle zone in crisi verso quelle in via di sviluppo. La "crisi generale" del 1991 non era poi così generale: gli Stati Uniti erano in recessione, ma Giappone, Germania e Tigri asiatiche stavano continuando il loro boom economico. Come abbiamo visto nel numero scorso, l'attuale depressione può anche essere meno profonda, ma è certamente più pericolosa per le possibili conseguenze, dato che i vari paesi sono in crisi sincronizzata.
Il fatto che la Terra non si possa espandere fisicamente come si espande la produzione è la causa della cosiddetta globalizzazione, cioè dell'espansione del mercato mondiale, integrata da una politica internazionale di investimenti. Ma questa integrazione mondiale, che è stata salvifica per la crisi di dieci anni fa, oggi è diventata la causa prima della crisi: se i maggiori paesi vanno in recessione, con l'integrazione attuale il fenomeno non può che essere auto-referente, proprio come nel modello di Marx, dove la frecciolina del plusvalore-investimento mostra la retroazione. Finché i sistemi sono molti e diversificati, è possibile modificare i flussi rappresentati dalla frecciolina e dirigerli dove più conviene; ma se il sistema è globalizzato, il modello si unifica e il flusso plusvalore-investimento si sclerotizza.
Gli economisti cercano di diffondere ottimismo facendo notare che nei paesi più importanti l'inflazione è bassa e che quindi rimane molto spazio di manovra per le politiche monetarie. Tanto più che in alcuni di quei paesi, specie negli Stati Uniti, vi è un surplus di bilancio, o comunque una diminuzione del deficit, per cui vi è anche massa monetaria disponibile per stimolare l'economia.
Vista la cosa alla luce della teoria del valore a noi sembra che la situazione sia del tutto diversa. E’ vero che l'inflazione è bassa perché sono diminuiti in genere i consumi, ma lo è soprattutto perché il calo della produzione industriale ha fatto crollare i prezzi delle materie prime (–32% dal '95). Con un simile risparmio di capitale costante la stagnazione con un’inflazione al 2-3% (o addirittura zero come in Giappone) è un segnale negativo, non positivo. Lo stesso discorso vale per la riduzione dei deficit e la realizzazione del surplus americano. In una economia mondiale basata da cinquant'anni sul deficit spending, cioè sulla politica keynesiana di sostegno alla produzione e ai consumi, la riduzione del deficit significa che la medicina keynesiana (o neo-keynesiana) non ha più effetto, il malato la rigetta. Una dimostrazione sussidiaria è l'insensibilità dell'economia americana al settuplice abbassamento del costo del denaro, equivalente, come provvedimento, a un massaggio cardiaco su di un cadavere, a un’ulteriore flebo in sala di rianimazione.
Ne abbiamo una verifica in campo finanziario. Per quanto riguarda l'industria, di solito occorrono sei o sette mesi per vedere i primi effetti di una manovra sui tassi; ma quelli sulle borse sono quasi immediati, dato che aumenta la convenienza delle speculazioni con denaro a prestito. Nel caso attuale i movimenti di borsa sono diminuiti invece di aumentare, e il valore delle borse mondiali è addirittura crollato catastroficamente, specie nel campo dei titoli legati alla new economy, i più sensibili alla speculazione dovuta al denaro facile. Il Nasdaq è sceso in un anno del 70%, le borse europee del 30% medio, Tokio è al livello del 1984.
Quando Fiat ha acquistato Montedison, attaccando Mediobanca che aveva messo entrambi i giganti sotto tutela, e quando subito dopo Pirelli ha acquistato Telecom, i commentatori nostrani hanno attribuito le nuove colossali centralizzazioni di capitale al ritorno in auge delle vecchie famiglie del capitalismo italico. Niente di più sbagliato: è la crisi internazionale che obbliga le residue, coriacee famiglie grandi-borghesi a cambiare natura e a trasformarsi in anonime centrali del capitale internazionale, pensionando per sempre l'arcaica figura del "padrone".
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MessaggioTitolo: speriamo di maturare un pochino   La festa sta per finire per tutti ...ricchi e poveri Icon_minitimeVen Feb 06, 2009 1:29 pm

Le follie dell'uono non hanno confini purtroppo......
La nostra società contemporanea che ci piaccia o no purtroppo é sempre più piena di contraddizioni e grossi problemi da risolvere; Dennis Meadows, autore del famoso rapporto “I limiti dello sviluppo”, dove afferma: “penso che diversi paesi Europei (e non solo) privi di risorse naturali tra i quali l'Italia, si avviino al declino e alla povertà se non avranno la capacità di riconvertirsi rapidamente”.
Credo che valga la pena di meditare su una tale prospettiva dal momento in cui cominciamo quanto tardi a renderci conto dei baratri di vuoto che abbiamo ottusamente scavato sotto la nostra economia durante gli anni del “boom economico”. La prospettiva di un'Italia che torni ad essere povera non é solo legata ai gravissimi errori compiuti in casa nostra ed in particolare all'idea di poter vivere a lungo al disopra dei nostri mezzi, ma anche al non aver capito le grandi correnti di fondo che stavano da anni agitando il panorama dello sviluppo mondiale, e che lo porteranno ancora a modificarsi profondamente nel prossimo futuro.
Troppo spesso in questi anni abbiamo sperato in qualche ripresa provvidenziale, che rimettesse a posto le cose e ci permettesse di continuare come prima.
E' ora di diventare tutti più adulti, per cominciare guardare con più intelligenza e meno demagogia a certe situazioni nuove che non possiamo ormai più ignorare, infatti noi risentiamo oggi e risentiremo sempre più in avvenire di crisi vitali come quella socio - economica ed energetico - ambientale che stanno manifestandosi in Europa ed un pò ovunque nel mondo.
Occorre dunque prendere atto e coscienza di una certa situazione generale per poi meglio affrontare i problemi anche di casa nostra con le nuove strade da percorrere che dovranno anche prevedere urgenti riconversioni a tanti livelli.
La nuova situazione generale ci fa subito capire che la posizione dell'Italia è diventata oggi particolarmente difficile proprio perché noi non produciamo abbastanza energia e cibo, dobbiamo comperare all'estero petrolio e prodotti agricoli, e con cosa li paghiamo adesso ed in avvenire?
Li potremmo pagare forse con la nostra capacità industriale, con la nostra capacità tecnologica, ma per fare questo occorrerebbe essere competitivi sui mercati internazionali, cioè occorrerebbe produrre a prezzi più bassi degli altri, oppure in modo più efficiente, oppure con tecnologie più avanzate, tutte cose che stiamo facendo poco, ed in disarmonia tra loro, oppure bisognerà diminuire i nostri consumi di energia e di cibo, e quindi di conseguenza accettare una diminuzione del nostro livello di vita, oppure occorrerà modificare il ritmo di sviluppo per bilanciare in qualche modo questi squilibri. Insomma in economia, come in tutte le
cose di questo mondo, esiste un sistema di contrappesi automatici, per cui si possono fare scelte di un certo tipo o di un altro, ma non si possono ottenere nello stesso tempo cose incompatibili tra loro.
La velocità crescente dello sviluppo é stata la regola che ha accompagnato l'espansione dei paesi industrializzati, senza tener conto dei rischi di una tale corsa senza freni. Il grande choc dell'autunno 1973 con l'embargo del petrolio e le restrizioni sui consumi di energia sembrava aver creato in tutto il mondo un clima psicologico nuovo, l'embargo del petrolio é stata purtroppo un'occasione perduta, in quanto era il momento di cambiare rotta, di rivedere a fondo la politica dei consumi, ed invece non l'abbiamo fatto; passato il momento più difficile, in tutto il mondo si é ripreso a fare uso come prima di benzina, di luce elettrica, di condizionatori, di energia di ogni tipo, come se non fosse accaduto nulla.
Questo succede perché nelle profondità del nostro intimo, non vogliamo accettare il concetto di essere arrivati al capolinea di un certo tipo di sviluppo, di aver già finito una corsa proprio sul più bello, di doverci fermare nel momento in cui si stava prendendo quota. Non vi é soltanto un problema di differenza tra ricchi e poveri, che in questo modo rischierebbe di cristallizzarsi, nel senso del “chi ha avuto ha avuto, e chi ha dato ha dato”, c'é proprio qualcosa nella natura umana che ci spinge inesorabilmente al movimento all'ascesa, come una molla che difficilmente può essere repressa, tale molla naturale é senza dubbi positiva, và solo controllata ed incanalata in modo da risultare positiva, e non dannosa alla nostra vita.
Oggi si é portati a pensare che gran parte delle responsabilità della crisi attuale, sono da addebitare al malcostume della vita politica, ed al troppo veloce sviluppo tecnologico che ha spinto troppo in avanti le cose, creando tipi di società che non
sono più "a misura d'uomo", deteriorando la qualità della vita, e in definitiva, inaridendo una civiltà.
E' da considerazioni come queste, che nasce in alcuni individui, specialmente tra i più giovani, una specie di rifiuto verso la politica e la tecnologia, ed in contemporanea sorgono dei desideri per modelli di vita più vicini alla natura, che portano comunque con sé delle grosse contraddizioni.
In realtà senza tecnologia i giovani tornerebbero a fare quello che hanno sempre fatto per millenni: pascolare le pecore e le mucche. Quindi la scelta, non può essere tra maggiore e minore tecnologia, perché allora sarebbe soltanto una scelta tra maggiore o minore miseria, analfabetismo, fame, malattie ecc.
L'uomo ha assoluto bisogno di tecnologia, il problema é piuttosto: quale tipo di tecnologia, con quali fini, a profitto di chi, entro quali equilibri.
La nostra tecnologia cerca veramente oggi di risolvere i problemi di fondo,
oppure invece continua a muoversi lungo linee antiquate e anacronistiche? Se guardiamo lo sviluppo tecnologico di questi ultimi 100 anni é facile rendersi conto che in realtà la tecnologia continua oggi ancora a premere sulle risorse anziché a crearle; infatti noi dipendiamo ancora in larga misura da alcune invenzioni di base che hanno caratterizzato la fine 800 ed il 900.
C 'é un' altro aspetto sul quale é bene riflettere, un aspetto di cui di solito non si parla, e che é invece é allarmante nel contesto della crisi attuale: il divario culturale, cioè il divario crescente tra una tecnologia che se ne va per conto suo a ruota libera condizionando in gran parte lo sviluppo in modo sbagliato, e una cultura che tutto sommato non si preoccupa troppo di guidare queste scelte tecnologiche; una cultura che troppo spesso considera la tecnologia estranea ai suoi interessi intellettuali. In definitiva, sostanzialmente manca un'educazione filosofico-scientifica non soltanto nella scuola ma anche nella società, capace di renderci più consapevoli sui rischi che corriamo con la perdita di certi equilibri naturali causati dalle devastazioni che inevitabilmente porta con sé una tecnologia usata male, ed a vantaggio solo di “qualcuno”.
Attenzione anche alle “false culture”, cioè a quelle culture solo di facciata nozionistiche e non interiorizzate, non calate quindi responsabilmente nella realtà oggettiva in cui tutti viviamo.
A proposito di cultura, sicuramente molto peso hanno avuto sulla nostra formazione culturale, le filosofie di vita di base dell'ESSERE e dell'AVERE.
Purtroppo le civiltà occidentali hanno sempre fatto leva più sulle filosofie dell'avere che dell'essere, spingendo l'uomo ad usare qualsiasi mezzo di prevaricazione pur di avere di più di tutto: potere, soldi, immagine, benessere ecc. In questo forse certe culture orientali hanno qualcosa da insegnarci... dovremmo nel prossimo futuro tra le altre cose, imparare a mettere davanti tutto i problemi dell'Io dell'uomo, in tutte le sue sfaccettature e le sue profondità.
Si rende quindi sempre più necessario un mutamento drastico di "filosofia" oltre che di scienza e tecnologia, cercando di attribuire un nuovo significato alla parola "progresso", in modo che questo progresso non si verifichi più soltanto in termini scientifici e tecnologici materiali, ma si indirizzi verso quella che a me piace chiamare la "scienza del buon vivere", scienza che non é ancora nata ma che invece dovrebbe fare da riferimento centrale verso tutti i vari aspetti filosofico-scientifici che riguardano la nostra vita in armonia con l’universo di cui siamo parte.
Dopo decenni di cosiddetto "progresso tecnico", insomma ci troviamo di fronte a una contraddizione di fondo: la tecnologia e la scienza potrebbero forse in teoria fornirci i mezzi per superare la crisi, ma in realtà la strada che continuiamo a percorrere non sembra certo essere quella giusta; e già oggi ci rendiamo conto a nostre spese delle conseguenze nefaste causate da uno sviluppo prevalentemente quantitativo che ci ha portati a sbattere il naso contro certi equilibri ambientali.
C' é ovviamente un aspetto politico di fondo in tale discorso, perché é evidente che lo sviluppo tecnologico risente in buona misura degli obbiettivi politici che lo condizionano e lo indirizzano; ma certe distorsioni non sono solo avvenute per soddisfare la cosiddetta "logica del profitto", sono avvenute in prevalenza per ignoranza e per ingordigia al di sopra di questa o quell’altra tendenza politica; e di conseguenza certe tecnologie atte all'ottenimento di un benessere collettivo, hanno finito in realtà per ritorcersi contro chi le usava, fallendo il loro scopo.
In altre parole esistono delle incompatibilità "tecniche" tra certi obbiettivi e i mezzi usati per raggiungerli, ed é necessario oggi trovare soluzioni di tipo nuovo.
Molti filosofi e scienziati oggi sostengono che abbiamo bisogno di uno sviluppo che renda i nostri sistemi meno complessi, che ci permetta un ritorno verso unità più piccole, più efficienti, meno dispersive, più controllabili, più flessibili, e in sostanza più a misura di uomo.
Può anche darsi che con la nostra mentalità attuale certi cambiamenti ci appaiono antieconomici, cioè non in linea con i nostri vecchi ragionamenti: ma é certamente meglio sopravvivere in modo antieconomico che morire in modo economico.
Nel terzo mondo questo discorso delle tecnologie intermedie o alternative é gia avviato perché ci si é resi conto che le tecnologie troppo avanzate, importate direttamente dall'occidente, molto spesso erano sfasate rispetto alle esigenze locali.
La questione, prima o poi, bisognerà risolverla cercando di riconvertire il nostro sviluppo in modo intelligente, così da salvare il più possibile capra e cavoli, e cioè mantenere un certo livello di vita senza entrare in conflitto con il prossimo; disporre di sufficienti risorse senza saccheggiare il pianeta e senza depredare gli altri.
E' evidente che questo risultato lo si può ottenere agendo a vari livelli nei nostri sistemi, ma sostanzialmente aumentando L'EFFICIENZA in ogni senso, non solo nel produrre energia e beni, ma nel produrre servizi, educazione, e consapevolezza del saper vivere grazie a una migliore progettazione dell'insieme.
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