C'è un insieme di credenze condiviso da circa il settanta per cento degli abitanti dell'India (più tutti gli indù che sono emigrati in varie parti del mondo) che è detto Induismo. L'origine di questa parola è persiana, e sindhu stava a significare (fiume, corso d'acqua, area del fiume), corrispondente all'iranico
... hindu, con cui si indicava la terra più a Oriente del grande impero di Dario e, quindi, del fiume Indo.
In seguito, attraverso vari passaggi dal greco fino al latino indus, si è giunti al neologismo hindu mediante il quale si è soliti indicare l'insieme di usanze e convinzioni condiviso dalla maggior parte degli abitanti delle regioni ad oriente appunto del fiume Indo.
Per definire tale "religione" - in realtà, insieme di religioni e credi religiosi - i termini sono Sanatana Dharma (le "eterne leggi divine universali") o Vaidika Dharma, insieme di norme contenute nelle sacre scritture dei Veda. Con il termine induismo non si intende, (occorre sempre ribadirlo), un'unica struttura religiosa, bensì una miriade di fedi, culture e filosofie, a volte anche distanti teologicamente fra loro, che manifestano però alcuni punti di convergenza comune, quali ad esempio, la teoria del karma, della reincarnazione, la possibilità di liberazione (moksha), l'accettazione dei Veda, il vasto numero degli dei adorati (peraltro, non tutte le correnti accettano le medesime manifestazioni del divino - dei o dee -, ma accettano il fatto che ogni manifestazione sia, in ultima analisi, un aspetto dell'unico Dio Brahman).
Secondo la storiografia eurocentrica, le origini storiche dell'induismo sono state a lungo fatte risalire all'arrivo degli ariani, ma si tratta di una posizione sempre controversa. In ogni caso, le origini storiche dell'induismo, pur difficilmente databili, sono antichissime, e non mancano studiosi (archeologi e antropologi), i quali datano tracce della civiltà dell'Indo già prima di 8.000 anni fa. Ma sempre secondo la nostra storiografia, si possono tracciare delle tappe nell'evoluzione dell'induismo, nelle varie epoche storiche, nel modo seguente:
1. Un primo periodo è detto vedico, dai Veda (= conoscenza vera, o sacra), grazie a testi canonizzati e ritenuti increati ed eterni, come auto-rivelazione dell'energia divina Brahman. Il periodo vedico si suddivide a sua volta in età dei Samhita ("raccolta degli inni"), dei Brahmana (composizioni sacerdotali di ritualistica) e delle Upanishad (parte speculativa-filosofica).
2. Un secondo periodo, è l'età dei Sutra, nella quale si inseriscono i Vedanga (cioè trattati sussidiari o supplementari dei Veda, nei quali si trattano anche la corretta pronuncia, la metrica, l'etimologia, la grammatica, l'astronomia e le norme per la cerimonia).
3. Un terzo periodo, è quello Itihasa ("Così invero fu"), caratterizzato dai famosi poemi di carattere popolare leggendario, fra cui il Ramayana e il Mahabharata).
4. Un quarto periodo, è l'epoca dei Purana (raccolte di storie dei tempi antichi, che tradizionalmente trattano cinque argomenti: creazione dell'universo; sua distruzione e ricreazione; genealogia degli dei; regni e varie epoche del mondo; storia delle grandi dinastie solare e lunare), degli Agama ("ciò che è stato tramandato"; testi che contengono insegnamenti tradizionali non-vedici) e dei Tantra ("fili intessuti su un telaio"; termine riferito a vari testi di carattere sia religioso sia laico, di tradizione hindu, ma anche jainista e buddhista).
Questi periodi rispecchiano dei passaggi fondamentali della religiosità indù, come quello rituale, quello speculativo e quello devozionale, o bhakti. Ma una peculiarità fondamentale dell'induismo è la sua visione astorica, atemporale, e quindi i periodi qui presi in esame non rispecchiano una vera suddivisione cronologica, bensì una coesistenza e un intrecciarsi continuo. Infatti, il carattere di astoricità così affine alla cultura indiana è determinato da fattori quali la lunga trasmissione orale, la concezione tipica indiana dell'eternità dei Veda, la totale mancanza di rilievo data agli autori dei testi.
Oltre a ciò, Sruti significa "ciò che è ascoltato" e sottolinea la trasmissione diretta, orale, da individuo a individuo, "ascoltata attraverso le orecchie e attraverso il cuore". In origine, il termine era riferito ai seguenti testi: Veda, suddivisi a loro volte in quattro raccolte (Rig Veda, Sama Veda, Yajur Veda, Atharva Veda); Samhita; Brahmana. Successivamente, il termine sruti è stato esteso anche alle Upanishad. Questi però sono criteri di classificazione prettamente "occidentali", e non è certo il sistema di classificazione adottato da Maharishi.
La religione vedica dà importanza a numerose divinità "liturgiche", quali ad esempio Indra (simbolo della forza vitale), Agni (il fuoco), Soma (la pianta divina, il cui succo è estratto nel sacrificio), Varuna (il dio delle acque). Divinità specifiche poi presiedono alle tre funzioni della società - sacerdotale, guerriera, commerciale-agricola - cui corrispondono tre diverse caste (brahmana, ksatriya, vaisya), cui se ne aggiunge poi una quarta (sudra), più orientata verso la manualità e la tecnologia.
Altre divinità nel tempo divennero pure importanti (per esempio, Vayu, Mitra, Parjania, Asvini, e così via) - anche se di fatto hanno un ruolo, almeno apparentemente, secondario. Invece Prajapati è il prototipo del personaggio che nell'induismo classico diventerà Brahma, il dio che personifica l'assoluto, mentre Purusha diventerà un nome di Vishnu, e un'altra divinità dei Brahmana - Rudra - è il prototipo di Shiva, un dio che simboleggia la neutralizzazione delle forze impure che potrebbero minacciare il sacrificio.
Negli Aranyaka ("testi della foresta"), il rituale si sposta dalla casa alla foresta, mediante una interpretazione filosofica dei rituali attraverso le allegorie. La parte più squisitamente speculativa è composta dai testi delle Upanishad ("Ciò che si ascolta seduti ai piedi di un Maestro"), che costituiscono la parte essenziale del Vedanta, e che per taluni studiosi completano il passaggio dal "politeismo" vedico originario alla riduzione delle varie divinità a una (un concetto però già presente nel Rig Veda, dove è scritto: "Dio è uno, ma i saggi lo chiamano con molti nomi").
Si può dire che dal rituale del periodo vedico, si passa alla speculazione delle Upanishad, e poi a quello della devozione (bhakti), e poi si sviluppano numerose tradizioni che compongono quella poliedrica struttura religiosa comprendente diverse teologie e filosofie, convergenti sui temi già detti come il concetto di liberazione (moksha), il karma e la reincarnazione, l'autorità dei Veda, e così via.
Il concetto di karma è legato alla legge di causa-effetto che costituisce la causa delle successive reincarnazioni. Lo scopo dell'individuo, quindi, consiste nella liberazione dal ciclo delle rinascite (samsara), cioè nella moksha ("liberazione"). Per conseguire la liberazione, assumono importanza centrale la conoscenza (vidya) e gli insegnamenti che il maestro (guru) trasmette al discepolo.
La conoscenza dell'Assoluto è sviluppata nelle Upanishad, in due modi principali. Da una parte, l'Assoluto è concepito come "totalmente altro", "né questo né quello" (neti neti), negazione di tutto ciò che è irreale, effimero, non permanente e transitorio; dall'altra l'affermazione di Assoluto come totalità, iti iti, il contrario di neti neti, definisce lo stesso Assoluto nelle sue qualità come sat cit ananda (realtà-coscienza-beatitudine).
Nella tipica predilezione per la classificazione del pensiero indiano, il numero quattro (3+1) ha un posto particolare: quattro sono i Veda; quattro sono le caste (anche se poi nascono innumerevoli sottocaste) - e l'induismo brahmanico tuona contro la confusione fra le caste e contro il matrimonio esogamico -; quattro sono gli stadi della vita dell'uomo, che in teoria - se non in una vita sola, attraverso le varie reincarnazioni - dovrebbe sperimentarli tutti, dallo studente al "rinunciante" (sannyasin), un ideale che l'induismo in questa sua fase di consolidazione afferma contro le "eterodossie" (come il buddhismo e il giainismo) che distinguono invece fra laici e monaci; quattro sono anche gli scopi della vita, tre di carattere pratico e il quarto - la liberazione (moksha) - da perseguirsi in ogni stato della vita, e di ogni vita, ma particolarmente quando si è raggiunta la condizione di "rinuncianti".
A proposito di come raggiungere la "liberazione", nell'induismo sono nate diverse scuole filosofiche, dottrine o "punti di vista" (darsana), fra le quali la più nota nel mondo è lo yoga ("aggiogamento"). La divisione fra i vari darsana è anche lo sfondo che vede nascere i movimenti di devozione (bhakti), che personalizzano il divino e fanno sentire la loro influenza nel periodo dei grandi testi epici - Itihasa - costituiti come si è accennato dal Mahabharata (che comprende il celebre Bhagavad Gita, il "Canto del Signore") e dal Ramayana.
L'universo descritto in questi poemi ruota intorno a Vishnu e alle sue incarnazioni (avatara), fra cui Rama e Krishna. Vishnu è complementare a Shiva - e la loro interazione regola i ritmi ciclici dell'universo - mentre Brahma, il creatore, la forma maschile dell'Assoluto impersonale, rimane - almeno originariamente - subordinato in quanto orientato verso il mondo.
La discesa degli avatara avviene sopratutto in tempi di crisi, per richiamare il mondo all'ordine. Così è ricostruita, in particolare, la missione di Krishna: con la precisazione, però, che Vishnu non scende nel mondo da solo e lo accompagnano "incarnazioni" di altre divinità, in particolare una dea, emanazione di un potere femminile (shakti) che comincia a essere considerato come essenziale all'opera cosmica della Trimurti composta da Vishnu, Shiva e Brahma.
L'importanza della dea si riflette nel successo del movimento tantrico che, con radici precedenti (e forse con influenze extra-vediche), si sviluppa a partire dal quarto secolo d.C. e penetra non solo nell'induismo, ma anche nel buddhismo e nel giainismo (considerati sistemi filosofici nastika, ovvero eterodossi).
Il tantrismo critica il tradizionale sistema brahmanico (i suoi adepti vengono da tutte le caste, i maestri sono spesso di casta inferiore) e considera il corpo non un ostacolo, ma il principale veicolo della liberazione. Una vigorosa ripresa dell'ortodossia (astika) induista fu promossa da Adi Shankara, all'origine anche di un grande movimento riformatore e codificatore degli ordini monastici.
Anche per gli occidentali, Shankara non è il fondatore, ma il principale restauratore dell'Advaita Vedanta, una corrente "non dualistica" che insiste sull'importanza di considerare il mondo come illusione (maya). Tutto è illusione - compreso Dio, se lo si identifica con le sue qualità (saguna) - e tutto deve essere trasceso per sperimentare la pura unità fra il sé e Brahman, che è l'Assoluto "senza qualità" (nirguna).
Da questo punto di vista, nonostante l'aspirazione a riconciliare tutte le correnti dell'induismo, l'Advaita Vedanta si pone in oggettivo contrasto con le varie forme di devozione bhakti, che continuano a fiorire e che a partire dall'XI e XII secolo corrono parallele alla formazione dei sampradaya ("tradizioni", o "sette", un'espressione questa che tra gli studiosi dell'induismo non ha un significato negativo, ma solo identifica i gruppi che onorano in particolare una specifica divinità, oppure seguono gli insegnamenti di un particolare maestro).
Tra i maestri più importanti dell'induismo delle sampradaya vanno segnalati Ramanuja, tra l'XI e il XII secolo, e - molto più tardi, in Bengala - Krishna Mahaprabhu Chaitanya (1486-1533), fondatore della "setta" Gaudiya Vaishnava, alle origini dei moderni Hare Krishna e di diversi altri movimenti contemporanei. Contemporanei di Chaitanya nell'India occidentale e settentrionale, ci sono i maestri che si definiscono per il loro rapporto con l'islam, o di tipo polemico ovvero - al contrario - sincretistico, come nei casi di Kabir (1440-1518) e Nanak, quest'ultimo all'origine della religione sikh, che nasce precisamente dall'incontro fra islam e induismo.
Ancora più recentemente, l'induismo si è definito in relazione all'Occidente e al cristianesimo. Nascono così i grandi movimenti di riforma del XIX secolo e, pure molto diversi fra loro, presentano anche l'induismo come monoteismo. Altri maestri invece si pongono il problema di portare l'induismo in Occidente, superando il punto di vista secondo cui si tratta di una religione per i soli indiani.
La rinascita spirituale dell'induismo di fronte alla sfida dei missionari cristiani nel XIX secolo - e la successiva "contro-missione" in Occidente - è rappresentata particolarmente da Ramakrishna e dal suo discepolo Vivekananda, il "san Paolo dell'induismo". Sulla scia di Vivekananda, molti altri maestri indiani sono venuti in Occidente, (ed ora ci sono gruppi presenti anche in Italia), ma in India - e nell'emigrazione indiana - questi movimenti coesistono con forme popolari di religiosità del tutto diverse, che sarebbe improprio escludere dalla definizione di "induismo", un concetto certamente insostituibile ma che gli studiosi considerano sempre più problematico.